da
Ecole, ottobre 2004 Resistere
tra i banchi Precauzioni
necessarie RAFFAELE
MANTEGAZZA "Non
ci sono poteri buoni", Fabrizio de André, Nella mia ora di libertà La
scuola ha bisogno di una scossa. Di una scossa salutare, di una torpedine che
la punga dall'interno e la faccia rivoltare, la costringa a contorcersi sul letto
di Procuste sul quale i conservatorismi non solo governativi la vorrebbero inchiodata.
Per fortuna i movimenti di rivolta e di resistenza riguardo alla riforma Moratti
vanno in questa direzione. È allora finalmente possibile pensare alla scuola
come a un ambito di resistenza. Il senso di questa rubrica è cercare di
analizzare alcune possibili strategie per fare della scuola uno strumento di resistenza.
Anche a se stessa. Perché resistere nella scuola significa anche resistere
alla scuola. Non si tratta solo di questo: le tentazioni descolarizzatrici sono
nobili e intelligenti ma forse dimenticano che almeno per questo periodo storico
la scuola costituisce una di quelle istanze di mediazione che possono ancora essere
salutari per il soggetto. Sempre più infatti la formazione del tipo umano
perfettamente inserito nel sistema sociale dato, ossequioso nei confronti dell'autorità
costituita ma al contempo fornito di una riserva di energia da canalizzare di
volta in volta contro il capro espiatorio di turno, sempre più questo processo
pedagogico avviene alle spalle di quelle istanze di mediazione (la famiglia, la
scuola appunto) il cui compito era certo quello di farsi portatrici dei desiderata
dell'ordine sociale, ma, dialetticamente, anche quello di creare spazi di disimpegno
e di possibile resistenza che attutissero l'impatto del singolo sul sistema e
viceversa. La scuola di per se stessa non è liberatrice. Essa è
funzionale rispetto alla tipologia della società nella quale è inserita,
è strategica rispetto al dispositivo socioeconomico che tale società
informa. Non possiamo pensare a una scuola che abbia quasi per magia o per essenza
il carattere di liberazione, a una scuola "buona" senza domandarci come
mai le società totalitarie riuscivano in modo così compiuto a mettere
in atto progetti educativi, a costituire scuole per lo sterminio e l'annichilimento
del singolo. La scuola di Jakob von Gunten, quella di August Strinberg, quella
di Stefan Zweig non sono pervertimenti della scuola, sono lo svelamento di una
parte consistente della sua anima. I nazisti non crearono una scuola pervertita,
praticarono una buona scuola (capiamoci: buona nel senso funzionalistico del termine,
una scuola che funzionava, una scuola che oggi vincerebbe il premio per la sua
efficienza) in una società pervertita, furono ottimi educatori e orribili
esseri umani. La scuola è dunque il vero e proprio braccio armato della
politica e della società, e la coscienza di ciò è il primo
presupposto per considerarla come possibile ambito di resistenza. Dispositivi
liberanti L'educatore
o l'educatrice che volessero predisporre progetti o dispositivi liberanti o emancipanti
devono tenere conto del fatto che la scuola può far male, che essa può
letteralmente fare il male, costituire il soggetto espropriato come quello espropriatore.
È il carattere creatore della scuola, il fatto che essa crea soggetti non
necessariamente buoni a dover essere smascherato. Il primo passo di ogni progetto
di pedagogia della resistenza è lo smascheramento del carattere irrimediabilmente
ideologico della scuola , non tanto della sua dimensione sovrastrutturale ma del
suo essere isomorfa alla struttura economica della società. È
allora la coscienza di essere stati a scuola e di essere a scuola a dover essere
posta, come docenti, al primo livello di un percorso di resistenza pedagogica;
non solo l'essere stati a scuola, come lettura diacronica dei dispositivi educativi
e pedagogici attraversati, delle scuole frequentate, dei maestri incontrati, degli
esami sostenuti, delle modalità di insegnare, imparare, indirizzare, sorvegliare
e punire che sono state subite e che continuano a vivere, dentro di noi, al di
sotto della nostra soglia di coscienza; e analisi sincronica di quanto di sé,
della propria identità personale e soprattutto professionale è leggibile
come prodotto o come deposito di tali dispositivi. Insomma, il primo passo per
resistere alla/nella scuola consiste nel resistere alla/nella scuola che ci portiamo
dentro, alla scuola che abbiamo vissuto e in un certo senso alla scuola che siano
stati, alla scuola che ci fa essere un po' troppo simili a lei, quando siamo stanchi,
demotivati o semplicemente disattenti. Una scuola da braccare nei suoi residui
fin dentro i nostri gesti quotidiani, i nostri lapsus, i nostri atteggiamenti,
una scuola da stanare con consapevolezza clinico-critica e da mettere alla luce
e in evidenza. Una scuola che ci ha fatto male, che potrebbe continuare a far
male ai nostri allievi, ma che se smascherata e proprio a scuola potrebbe rivolgere
contro il dominio una delle sue armi, la perpetuazione anonima e irriflessa delle
strutture di potere. Potremmo insomma capire con i nostri alunni che la scuola
non è buona né cattiva: ma che c'è, e soprattutto che ha
una presa sul singolo che va al di là della sua coscienza. E soprattutto
capire che non ci sono poteri buoni, ma che è la società ad essere
buona o cattiva ed è la politica a permeare di sé e delle sue scelte
liberanti o esproprianti la scuola e tutte le altre istanze di mediazione e di
potere. [email protected]
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