I
FILM DI DONNE AIUTANO A GUARDARE Care
amiche, mi rivolgo a voi con questa lettera nella speranza che finalmente apriamo
un dibattito su film delle donne e film maschili. Mi dà l'occasione il
numero di Via Dogana appena uscito dove Marina Terragni per sottolineare
lo svantaggio maschile richiama American Beauty. Ma come - mi chiedo -
è il caso di ricorrere a un film maschile, scritto e diretto da due uomini
proprio su questi temi? Ci sono centinaia di film di donne che molto prima di
quello fanno agire la differenza maschile in modo diciamo: inconsueto. Dopo di
che M.T. commenta che nel film citato ci si identifica con il personaggio maschile.
Non posso pensare che non conosca la critica femminista americana che sono trent'anni
almeno che pubblica testi dove - fra il resto - sostiene che lo sguardo è
sempre maschile, al di là del sesso di chi guarda. Io dico che ha ragione
perché la protagonista è sempre troppo bella, troppo speciale, troppo
evocatrice di mitologia femminile per controllare un'identificazione. Nel cinema
narrativo classico lei è infatti chiamata a sollecitare l'immaginario ma
anche a calmare il maschio spettatore che va rassicurato perchè non tema
la castrazione, e rimanga povero ma intatto, sicuro della sua identità.
Tentativo delle registe è stato spostare questo fine equilibrio misurato
sul maschile e il suo senso di realtà e di realizzazione costruito dall'industria
dell'immaginario. Un film, interpretato, scritto e diretto da sole donne come
Madchen in uniform di Leontine Sagan, la prima è a Berlino nel 1931,
aveva già questa intenzione. Le
immagini non sono un neutro pezzettino di realtà; per tutta la durata di
un film assistiamo a una costruzione dove di solito è abbastanza chiaro
quali sono le misure in gioco sul fronte del maschile e del femminile. Un film
di un regista raramente riesce a spostare l'attenzione su un personaggio femminile
credibile e di esempi me ne vengono in mente tanti. L'effetto che potrà
magari piacere ai critici e essere eccellente, certamente divertente è,
secondo me, di solito povero di comunicazione perché dove ci si aspetterebbe
il nutrimento più profondo, che vada a irrobustire il senso di sé,
come il sostrato che dà la relazione femminile, questo di solito è
inattivo o inappropriato. Le donne nella professione di regista sono solo
il 7% . Per essere così in minoranza si fanno molto sentire; quasi sempre
riescono a aggiudicarsi dei premi ai festival, fanno molto cinema lesbico, e ai
festival di settore coprono la metà delle pellicole proposte. In alcuni
casi ci hanno conquistato assolutamente. Un'ora sola ti vorrei di Alina
Marazzi è una pellicola che hanno tutte amata tanto che è stata
riproiettata almeno cinque o sei volte solo al Circolo della Rosa. Mi chiedo allora
perché sulla rivista dove i libri recensiti sono quelli delle donne, l'arte
è quella delle donne, il tema del lavoro è quello femminile, di
fronte al cinema invece ogni film è buono, che sia scritto diretto controllato
da uomini finisce comunque nell'interpretazione di chi l'ha visto, come se un
film ci facesse veramente vedere la realtà. Eppure sono i film delle
donne che aiutano a guardare al procedere delle nostre esistenze, allo scorrere
del tempo e nel costruire un'immagine di sé. Non parlo qui di identità-
ma della lente per conoscere che va a mettersi fra sé e l'emozione che
la vita ci dà. L'immagine è anch'essa il risultato di mediazioni,
interpretazioni e connessioni di eventi anche se solo immaginati. In questo reciproco
scambio fra la proiezione del nostro desiderio e un film abbiamo la fortuna di
poterci avvalere dell'autorialità femminile perché rinunciarci?
o resisterle? o ignorarla? Che cosa temiamo dai film delle donne? Donatella
Massara [email protected] |
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