Il
Signore dello stupro Luisa Muraro (articolo
uscito sull'Unità del 24 marzo 1989) C'è
un passo di Fiamma viva d'amore in cui l'autore, il santo castigliano Giovanni
della Croce, secolo XVI, descrive l'operazione di Dio che s'impadronisce dell'anima,
e la descrive in sostanza come uno stupro: ci sono maniere forti, gesti violenti
e impetuosi, l'atto è brevissimo e si compie rapidamente... Un simile linguaggio
è frequente nella letteratura mistica cattolica. Lo usa anche Simone Weil:
"Io ho bisogno che Dio mi prenda con la forza...". La figura del Dio
stupratore, tuttavia, non è di origine cristiana né ebraica (il
Dio della Bibbia, quando vuol unirsi ai mortali, somiglia piuttosto a un corteggiatore
insistente). Viene dalla cultura greca antica, e più precisamente ateniese,
come ci informa l'ottimo libro di Eva C. Keuls, Il regno della fallocrazia (Il
Saggiatore, Milano 1988). I greci di Atene, scrive la Keuls, erano "ossessionati"
dall'idea dello stupro, lo provano la mitologia e la pittura vascolare. Quello
che la mitologia narra e le figure dei vasi mostrano, lei afferma, non sono schermaglie
amorose, come hanno voluto ritenere quasi tutti gli studiosi, ma stupri veri e
propri. Solo in un secondo tempo, aggiunge, molti episodi di stupro della mitologia
presero una connotazione mistica di unione tra l'essere mortale e la divinità
(cfr. pp. 54-56). Anche Simone Weil, profonda conoscitrice del mondo greco,
pensa che non si trattasse affatto di schermaglie amorose. In lei, però,
la sequenza è capovolta. Per lei, i greci erano "ossessionati dall'idea
della grazia" e le violenze degli dei sulle creature sono, propriamente intese,
immagini dell'azione spirituale di Dio sull'anima. Lo stupro alla lettera va visto
come qualcosa di secondario, come un tentativo illegittimo d'imitare Dio (cfr.
Quaderni, volume terzo, Adelphi, p. 37). I due schemi, per quanto difformi,
non si escludono. Infatti, la metafora del Dio stupratore nasce, come ogni metafora,
dall'interazione fra due campi semantici, che sono, da una parte il contatto mistico
tra l'anima e Dio, dall'altra la sessualità maschile violenta. E nulla
vieta di supporre che fra i due temi si sia stabilita anche storicamente una qualche
circolarità. Se poi lasciamo da parte Dio e i greci antichi per rivolgerci
al nostro tempo, alla nostra società, vediamo che gli schemi sono entrambi
utili e fra loro complementari. Il libro della Keuls ci insegna a vedere che
le varie pratiche sociali della sessualità maschile violenta sono momenti
normali di culture ammirate e per tanti aspetti ammirevoli, come fu la cultura
ateniese del sec. V a.C. È stato detto che una società si giudica
dalla qualità dei rapporti fra uomo e donna. Ebbene, ora sappiamo che non
è vero, né di fatto né di diritto. Il
principio del dominio attraverso il sesso Simone Weil ci insegna, d'altra
parte, che l'intenzione dello stupratore è rivolta non verso la donna ma
verso Dio o qualsiasi cosa stia al posto di Dio: il padre, il capo, l'ordine costituito,
il Super-io, non importa. È un dato di grande importanza e l'unica critica
che io rivolgerei al lavoro della Keuls è la sua difficoltà a rendersi
conto che la ragione politica dello stupro ("Lo stupro è l'estrema
traduzione in pratica del fallicismo. Non viene commesso a scopo di piacere o
di procreazione, ma per affermare il principio del dominio attraverso il sesso",
p. 54) non si traduce necessariamente e anzi, forse, necessariamente non si traduce,
in un'intenzione dell'uomo verso la donna. Lo stupratore sta in una sua autosufficienza
simbolica che gli viene dal suo sesso o dal suo Dio o, detto alla buona, dal fatto
di essere un uomo. Che sia così, ne abbiamo una conferma dai processi
per stupro, vissuti da molte delle vittime come un prolungamento, in forme mutate,
della violenza già subita. Il loro vissuto rispecchia, io ritengo, non
tanto l'atteggiamento personale degli addetti alla giustizia, quanto il fatto
oggettivo che questi e lo stupratore sono fra loro in una relazione in cui la
donna non c'entra se non come un negativo. Ogni stupratore, in sostanza, dice
al suo giudice il loro comune privilegio di non essere nati femmine. Forse in
considerazione di ciò, Luce Irigaray ha suggerito (non ricordo in quale
contesto) che in questo tipo di processi la costituzione di parte civile sia riservata
primariamente alla madre della vittima. La coppia madre-figlia, infatti, rappresenta
il principio di un ordine simbolico e sociale femminile. Per vie diverse,
Simone Weil e l'autrice del Regno della fallocrazia ci aprono gli occhi sul fatto
che, nel significato che gli uomini danno allo stupro, le donne non c'entrano.
Esse vi figurano ma solo come corpi o come metafore. Non ci sono come possibili
antagoniste nei desideri o nell'interpretazione. Purtroppo, però, non possiamo
concluderne che la loro volontà o i loro pensieri siano di conseguenza
al riparo. Purtroppo accade molto spesso che quando c'è stupro (o processo
per stupro) la volontà e il pensiero della donna siano esposti con il corpo
a una violenza che però è peggiore di quella patita dal corpo. Essere
al riparo, per la mente, vuol dire poter dare significato a quello che vive. Ma
c'è un significato femminile dello stupro? In mancanza di questo la mente
è come fuori di sé e si trova così esposta, simbolicamente,
alla violenza. Da qui viene il pathos smisurato dello stupro per molte donne,
che aggrava il problema del rendere veramente giustizia alla vittima. Sbalordimento,
fragilità e acquiescenza Simone Weil mette sotto accusa il comportamento
dell'uomo violento che scimmiotta l'operazione divina. Ma c'è anche un'imitazione
da parte della donna che reagisce all'iniziativa dell'altro con la fragilità,
lo sbalordimento o l'acquiescenza che, a detta dei mistici, caratterizza l'anima
presa da Dio. Anche questa imitazione è illegittima, sebbene sia involontaria,
puro effetto d'impreparazione. Considero impreparazione la mancanza di un significato
femminile per questo tipo di esperienze. Mi si potrebbe far notare che la società
patriarcale è una realtà storica, che la sessualità maschile
violenta è un fatto di cultura più che di natura. Possono dunque
cambiare e io lo spero. Ma in questo non vedo un'obiezione alla necessità
d'integrare lo stupro, da parte della donna stessa, nella sua condizione umana.
Tutto quello che gli esseri umani vivono ha forma storica e se una donna, per
il senso delle sue esperienze negative, deve dipendere dal futuro, allora la violenza
che subisce le avrà portato via anche un pezzo di vita presente. Forse
ogni forma di dominio è un modo di costringere l'altro a cedere il suo
presente e a proiettarsi, per il senso della sua esistenza, nel futuro. Il
primo significato femminile indipendente dello stupro è di essere una disgrazia.
Angela Putino di Diotima mi suggerisce la parola sventura, che mi va bene. A ogni
donna può capitare di subire violenza sessuale, così come a ogni
donna che frequenta sessualmente uomini può capitare di dover abortire.
(Per l'aborto, in effetti, vale in buona parte lo stesso discorso.) Si tratta,
nell'uno e nell'altro caso, di un evento doloroso che lascia un segno, ma non
ha nulla di straordinario: fa parte della comune condizione femminile. È
già capitato e capiterà ancora a molte. Il che non vuol dire che
la risposta sarà uniforme, la stessa per tutte, al contrario. Proprio sulla
base di una riconosciuta comunanza, di una banalità che non umilia, la
singola potrà elaborare la risposta che significhi quello che lei è
o quello che vuol diventare attraverso la sventura che le è toccata. Vi
farà una risata o una meditazione, un racconto o una separazione. Darà
ai fatti la misura giusta, non darà a nessuno il pretesto di credersi Dio.
S'intende che questo non è opera della singola, ma di una cultura femminile.
Che però c'è nella storia delle donne, basta cercarvela: potrei
quasi dire che ogni grande pensatrice, da Teresa d'Avila a Gertrude Stein, insegni
alla mente femminile la capacità di stare in sé e a non prendere
un uomo per Dio, la finzione per la realtà. [email protected]
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